TRACCE DI MEMORIA – PAOLA TRANCHESE-ESPOSITO, LETTRICE A NOVANT’ANNI. L’IMPORTANZA DEI LIBRI CHE RACCONTANO I TERRITORI

Massa di Somma – A novant’anni la signora Paola Tranchese è stata una delle prime lettrici del romanzo “La bambina della masseria Rutiglia”, pubblicato lo scorso mese di maggio a firma di Carlo Silvano, perché il libro è ambientato durante la Seconda guerra mondiale nella contrada di San Gennariello a Pollena Trocchia, e ha come protagonista sua sorella Carmela e la sua famiglia di origine. La lettura del libro ha risvegliato nella signora Paola tanti ricordi della propria infanzia che spesso ha raccontato alle proprie figlie e ai nipoti. Le ha voluto raccontare anche a noi che l’abbiamo intervistata per rivivere quel tragico periodo che è stata la Seconda guerra mondiale, e anche per riscoprire i tanti valori tipici della cultura contadina, fatta soprattutto di solidarietà e condivisione. “Quando ci fu l’eruzione del Vesuvio nel 1944 – racconta la signora Paola – ci trasferimmo dai nonni materni nella masseria “Rutiglia” che si trova nel comune di Cercola sul confine con quello di Pollena Trocchia. Posti letto non ce n’erano per tutti: la casa della nonna era molto piccola e quindi dormivamo nella stalla, insieme alle mucche, ai cavalli e ai maiali. Insomma, tutti insieme nella stalla. Per trascorrere la notte stendevamo della paglia per terra e ci addormentavamo lì. Eravamo soprattutto ragazzine e bambini: chi piangeva, chi strillava e chi non riusciva a dorminre per i morsi della fame. Le mucche muggivano, il cavallo nitriva forte, il maiale pure si faceva sentire e tutto questo continuava fino al mattino quando arrivava la zia Pierina, sorella di mia madre, e mungeva una mucca per offrire del latte ad ognuno di noi. Abbiamo vissuto nella stalla per parecchio tempo e situazioni del genere erano comuni in tante famiglie”. Signora Paola, so che dopo l’armistizio dell’otto settembre del 1943 anche suo padre ha rischiato di essere arrestato dai tedeschi e deportato in Germania… Per sfuggire ai tedeschi mio padre si nascondeva in una buca fatta in una campagna, con le fascine sopra per non farsi vedere. I tedeschi passavano con i fucili e sparavano a chiunque incontrassero. Per ogni tedesco ucciso, uccidevano dieci italiani. Una cugina di mia madre si era recata a Ponticelli e, mentre faceva un tratto di strada con un figlio ed il suo papà furono fermati dai tedeschi, i quali presero l’uomo e lo misero contro un muro e gli spararono. Una tragedia. Il bambino tornò a casa senza il padre. Poi quando si sentiva l’allarme che annunciava l’arrivo degli aerei nemici, tutti scappavamo verso un ricovero per non restare uccisi dalle bombe. Il ricovero non era altro che una grotta.. Poi, come si racconta anche nel libro di mio nipote Carlo, appena cessato l’allarme, rientravamo a casa e mia madre ci contava per controllare che non mancasse nessuno, ma una volta, come è scritto nel libro, mancava proprio mia sorella Carmela. Ricordo che papà corse fuori e la trovò dentro la grotta, tutta bagnata perché all’interno scorreva l’acqua. E’ vero che la vostra famiglia aveva cresciuto un maialino e poi l’avete mangiato? Se non lo avessimo mangiato noi, l’avrebbero mangiato i ladri. In quel periodo abitavamo a Pironti nel comune di Cercola, perché la nostra famiglia era cresciuta di numero e l’abitazione di San Gennariello a Pollena era troppo piccola. Una volta, di notte, papà sentì dei rumori e uscì di casa con il fucile e i ladri che avevano tra le proprie braccia il maialino, per scappare lo lasciarono. Dopo questo tentato furto, i miei genitori decisero di far dormire il maialino in casa, così ogni sera sistemavamo della paglia e lui dormiva ai piedi del nostro letto, poi la mattina pulivamo tutti e lo portavamo fuori. Durante la guerra avete patito molto la fame? Avevamo molta fame. Quando potevamo prendevamo le carrube dalle sacche dei cavalli: erano buone perché la fame era veramente tanta e una volta mia nonna dovette uccidere il proprio cane per mangiare qualcosa. Ricordo che la notte quando ci mettevano a letto, non avevamo nulla da mangiare, e chiedevamo a nostra madre qualcosa e lei ci rispondeva di non aver nulla. Ci diceva, forse per la disperazione, di andare a dormire e che il giorno dopo avrebbe cercato qualcuno che poteva darci un pezzo di pane da dividere tra noi. Lei il suo pezzetto lo conservava nell’armadio e noi figlie guardavamo attentamente dove lo conservasse e poi lo mangiavamo. Lei rimaneva senza e io a questo ci penso sempre.

Chiara Silvano

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