“Siamo stanchi ma non possiamo fermarci”: i parenti delle vittime di camorra scrivono al governo

«Siamo mogli, figli, figlie, sorelle, fratelli, padre e madri di vittime innocenti della criminalità organizzata. I nostri familiari sono stati uccisi dalla camorra senza colpa, per uno scambio di persona o per essersi opposti ad essa, ed ora sono finiti nel tritacarne della burocrazia, vittime ulteriori di un trattamento discriminante». Inizia così la lettera che 14 congiunti di persone uccise dai clan, cui lo Stato non ha mai riconosciuto i benefici economici di legge, hanno inviato una decina di giorni fa al premier Giuseppe Conte, e ai due vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ministro dell’Interno e competente per la materia; nessuna risposta è arrivata, nonostante i familiari delle vittime avessero chiesto un semplice incontro.
Tra i firmatari Augusto Di Meo, testimone oculare dell’omicidio del sacerdote di Casal di Principe don Peppe Diana, mai riconosciuto come testimone di giustizia nonostante abbia fatto condannare il killer subendo danni fisici e morali, Giuseppe Coviello e Rosa Pagano, i cui padri Paolo e Pasquale furono uccisi nel 1992 dai Casalesi per un scambio di persona, Lucia Zenna, madre di Generoso Pagliuca, il 23enne ucciso dai Casalesi nel 1995 per aver difeso la sua fidanzata vittima degli abusi della compagna del boss, che se n’era invaghita; compare anche Giovanna Scudo, madre di Salvatore Barbaro, ucciso ad Ercolano nel 2009 perché scambiato dai killer per il bersaglio. Hanno firmato la lettera anche il sindaco di Casal di Principe Renato Natale, i referenti di Libera e Comitato Don Diana Gianni Solino e Valerio Taglione, e il rappresentante del coordinamento vittime innocenti della criminalità organizzata Salvatore Di Bona.

I congiunti delle vittime sono da tempo impegnati in una «battaglia» per far cambiare la normativa, modificata in senso restrittivo nel 2008, proprio quando la camorra Casalese lanciò un’offensiva contro lo Stato uccidendo 18 persone in pochi mesi nel Casertano, tra cui i sei ghanesi vittima della strage di Castel Volturno. «Negli ultimi dieci anni – scrivono – siamo diventati carta da rigettare, pratiche da bocciare; abbiamo protestato, urlato e scritto, ma negli ultimi anni dirigenti dello Stato hanno addirittura diffamato la memoria dei nostri cari. Siamo sopravvissuti ad una guerra in cui lo Stato ha perso per anni. Non vogliamo carità, ma di porre fine ad un trattamento che ci discrimina».

Sotto accusa è finita soprattutto la norma che vieta al Ministero dell’Interno di concedere il vitalizio ai familiari delle vittime della criminalità organizzata, qualora questi abbiano parenti o affini entro il quarto grado nei cui confronti è in corso un procedimento di prevenzione o penale per motivi di mafia; una norma ritenuta troppo rigida ma mai modificata. Nel giugno scorso un giudice napoletano si è anche pronunciato per la costituzionalità della norma. Di fatto, tale previsione di legge ha impedito a molti parenti di persone innocenti uccise dai clan, che non hanno mai fatto parte delle cosche, di avere una qualche forma di sostegno dopo aver subito il dramma della perdita di un proprio caro. Tra i casi più noti quello concernente Marisa Garofalo, sorella della vittima dell’ndrangheta Lea Garofalo, cui lo Stato ha negato il vitalizio nonostante la parente uccisa avesse testimoniato contro il marito e il cognato affiliati. «Siamo stanchi ma non possiamo fermarci» concludono.

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